Daniel Garliner : tu vedi quello che sai, se non sai una cosa non la vedi
«In ogni battaglia tra i muscoli e l’osso, vince sempre il muscolo». Questo uno dei precetti di Daniel Garliner, uno dei padri riconosciuti della terapia miofunzionale, ovvero della terapia logopedica che ha lo scopo di rieducare il funzionamento dei muscoli della lingua e della faccia per riportare un equilibrio e un bilanciamento della muscolatura orofacciale e un’armonia del viso nel suo complesso. Tra i seguaci del professor Garliner si distingue senza dubbio la dottoressa Pasqualina Andretta, che ebbe modo di seguirlo nel corso degli anni e di confrontarsi con lui su un metodo che oggi ha approfondito e ampliato.
Dottoressa, quando ha conosciuto Daniel Garliner?
«Ho conosciuto Daniel Garliner nei primi Anni 80. In quegli anni la condizione dei bambini affetti da sordità profonda era particolarmente difficile. Non c’erano infatti gli impianti di oggi, ne tanto meno esistevano gli ausili digitali che ora sono di uso comune».
Alla sordità dunque si accompagnavano anche altri problemi?
«Sì, il più comune era quello della cattiva occlusione»
Vale a dire?
«Si tratta di un rapporto alterato tra le arcate dentarie che, oltre al deficit uditivo, non consentiva loro di avere una corretta articolazione del linguaggio».
Le due cose sono dunque connesse?
«Si è chiaro, i due problemi erano sempre legati, solo che oggi si riesce ad intervenire con maggiore incisività»
Come si lega tutto questo alla sua amicizia e alla sua collaborazione con Garliner?
«In quegli anni lavoravo presso un distretto sanitario di Cittadella, che si trovava vicino al servizio di odontostomatologia. Per caso, chiacchierando con un medico ortodontista mi raccontò di un americano che, a detta sua, faceva delle cose splendide. Iniziai a documentarmi e decisi di partecipare ad un corso che fece in Veneto nel 1988. Ricordo che in quella occasione ci trovammo in una stanzetta piccola, eravamo circa una quindicina di persone tra logopedisti e ortodontisti».
La sua prima impressione?
«Ottima da subito, nonostante io non parlassi ancora l’inglese. Durante il corso credo che mi abbia notato per le tante domande che facevo e così iniziò a prendermi sempre come ‘modello’ per le sue spiegazioni. Si vede chiaramente in un video che fu girato all’epoca».
Dopo quel primo corso ce ne furono poi altri?
«Ce ne furono tanti altri. Già nell’anno seguente e poi ancora. Nel 1991 addirittura venne organizzato un corso a Venezia dove fu proprio lui a chiedermi di parlare dell’esperienza italiana».
E’ mai stata a Miami per seguire qualche corso?
«Ricordo che dissi a Garliner che ci sarei andata, ma fu lui stesso a dirmi che non se ne parlava. Mi guardò sbigottito e mi disse ‘tu a Miami non ci vieni, sai già fare tante ed è più utile che tu stia in Italia ad insegnare il mio metodo».
Una bella soddisfazione.
«Sì, lo devo ammettere. Comunque ho sempre tenuto un report con i miei casi più interessanti e addirittura ricordo che qualche volta è stato lui stesso ad annotare con interesse le mie soluzioni».
Insomma, l’allievo supera il maestro?
«Non mi sento di averlo superato, ma con le conoscenze di oggi si riescono a fare cose che prima erano impensabili. In sostanza ho potuto proseguir e il suo lavoro e in alcuni casi ampliarlo».
Come superavate le difficoltà linguistiche?
«In realtà il linguaggio non è mai stato un grande problema, ragionavamo sulle idee e su quelle ci siamo sempre capiti al volo».
Un aneddoto che ricorda con piacere?
«La cosa più buffa che mi viene alla mente è legata al suo modo di canticchiare mentre lavorava. Accennava sempre al motivetto della fiaba di Biancaneve, ha presente la canzoncina dei sette nani?. Riusciva a trasmettere un senso di ‘familiare’ a tutti noi. Detto ciò ricordo che era molto preciso e legato alla puntualità. Ogni volta che qualcuno tardava ad entrare in aula si fermava con grande imbarazzo del ritardatario».
Il suo ricordo di Garliner in una frase?
«Lui diceva sempre ‘tu vedi quello che sai, se non sai una cosa non la vedi’».
Raffaele Nespoli